Le soluzioni alla crisi economica italiana 2008-2014

Periodo di riferimento: 2014
Durante gli anni di recessione dell’economia italiana, le conseguenze delle due crisi finanziarie - quella del 2007 e quella dei debiti sovrani del 2011 - sono state spesso additate dai mass-media e dai partiti politici come le cause principali della crisi economica italiana. Invece, la crisi dell’economia italiana aveva radici più profonde, tant’è vero che il superamento delle conseguenze della crisi finanziaria del 2007 (le esportazioni italiane a fine 2010 si erano già riprese) e il progressivo allentamento della stretta creditizia provocata dalla crisi delle finanze pubbliche del 2011 non determinarono automaticamente la fine della crisi dell’economia italiana, che si protrasse fino al 2014. L’assenza di crescita dell’economia italiana era determinata da fattori interni e per risolvere la crisi economica sarebbe stato necessario intervenire su questi fattori.

Una immagine che evoca la crisi economica italiana

Come alcuni economisti hanno fatto notare, più che di crisi economica si poteva parlare di "declino" poichè l'impoverimento del paese andava avanti ormai da troppi anni e gli ostacoli che impedivano la crescita economica avevano caratteristiche strutturali.

Le cause e gli eventi che avevano determinato la crisi economica italiana erano note e potevano essere così raggruppate:

  • cause contingenti, ovvero gli eventi che avevano fatto precipitare il già precario equilibrio dell'economia italiana, come le ripercussioni della crisi economica finanziaria internazionale del 2007 e le ripercussioni della crisi dei debiti sovrani del 2011;
  • cause strutturali di economia politica generate dalla mancanza di adeguate politiche industriali e fiscali, tra cui la stagnazione della produttività del lavoro, l'impoverimento della classe media ovvero le eccessive disparità nella distribuzione del reddito nazionale, la perdita di fiducia dei consumatori;
  • cause strutturali generali e di sistema che avevano reso l'ambiente economico italiano inospitale, tra cui l'inefficienza della pubblica amministrazione, della giustizia, del welfare, del mondo del lavoro e della formazione e l'eccessivo livello di corruzione, di evasione fiscale, di debito pubblico, di tassazione in rapporto ai servizi erogati dallo Stato.

Per comprendere il cambiamento del contesto economico in cui è inserita l'Italia occorre considerare le relazioni che intercorrono tra il sistema economico italiano, l'Europa e il contesto economico mondiale, accettando implicitamente alcune teorie e modelli macro economici.

Gli stati, i relativi sistemi economici e le imprese sono in competizione tra loro per accaparrarsi risorse scarse. Questa competizione economica ha generato lotte di potere, colonialismi e guerre, tuttavia oggi, per buona parte della popolazione mondiale, questa competizione avviene in un contesto meno cruento: la cosiddetta globalizzazione. Con la globalizzazione gli operatori economici che normalmente competono tra loro all'interno di un sistema economico - imprese e istituzioni finanziarie in primo luogo - sono costretti a competere anche con operatori economici provenienti da altri paesi, da altri sistemi economici.

La competizione economica non solo mette gli operatori in concorrenza ma li costringe anche a collaborare, a fare sistema. Gli operatori economici tendono quindi a specializzarsi, ad organizzarsi in sistemi complessi sia all'interno che fuori dei confini nazionali. Avremo quindi un sistema economico nazionale che:

  • contiene sottosistemi, come ad esempio il sistema bancario, l'insieme dei servizi erogati dalla pubblica amministrazione, le infrastrutture di rete, i settori e i distretti industriali;
  • può essere parte di organizzazioni sovranazionali che comportano una parziale rinuncia alla sovranità nazionale, come ad esempio l'Unione Europea;
  • aderisce a organizzazioni internazionali come, ad esempio, il Fondo Monetario Internazionale (FMI), l'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o WTO), l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), la Food and Agriculture Organization (FAO) delle Nazioni Unite (ONU), il G8, etc.

Per un numero crescente di paesi il buon funzionamento dell'economia nazionale è sempre più dipendente dalla capacità dei propri operatori economici di competere sui mercati internazionali, dall'efficienza dei propri sistemi e sottosistemi economici e dalla loro capacità di integrarsi con altri sistemi. Per restare competitivi gli operatori economici di una economia globale, oltre che innovare per proprio conto, hanno bisogno che il loro sistema economico di provenienza e i relativi sottosistemi siano sufficientemente competitivi o specializzati rispetto a quelli di paesi simili o con i quali esiste una integrazione.

In una economia globale la competitività non riguarda solamente gli operatori economici, ma anche le strutture economiche e sociali dei paesi di provenienza.

E poichè il contesto economico globale muta continuamente - paesi che conquistano un peso economico crescente, nuovi operatori economici che diventano sempre più competitivi, sistemi economici nazionali e transnazionali che evolvono - per restare competitivi occorre che i sistemi economici siano propensi al cambiamento e abbiano la capacità di adattarsi velocemente.

In Italia c'è stata scarsa attenzione da parte dello Stato nei confronti dell'efficienza del sistema economico e una scarsa capacità di adattamento ai cambiamenti intervenuti dopo l'adozione dell'Euro. Il risultato è che il nostro sistema economico ha progressivamente perso di competitività nei confronti di paesi simili al nostro. Parte degli operatori economici italiani sono riusciti a mantenere la propria competitività, nonostante le inefficienze di sistema, adottando strategie tese alla riduzione dei costi di produzione, come l'esternalizzazione della produzione in paesi emergenti, l'abbassamento del costo del lavoro, la delocalizzazione. Questi processi hanno però determinato il progressivo impoverimento della classe media, la perdita di fiducia ed il calo dei consumi, anche perchè non sono stati bilanciati da una crescita degli investimenti. Anzi, le inefficienze di sistema hanno determinato un ambiente economico "ostile" agli investimenti, che sono addirittura diminuiti. Infatti, la produttività media del lavoro in Italia è rimasta molto bassa se paragonata a quella dei paesi ricchi dell'eurozona.

Per avviare a soluzione la crisi economica italiana occorreva quindi rilanciare gli investimenti, ma per farlo sarebbe stato anche necessario rendere l'ambiente economico italiano attrattivo per gli investitori privati.

Attuare un consistente programma di investimenti statali da finanziare in deficit non sarebbe stato praticabile, sia per i vincoli di bilancio imposti alle finanze pubbliche dai parametri del patto di stabilità e dal processo di integrazione europea, sia perchè non si poteva accrescere il debito pubblico italiano la cui sostenibilità era a rischio e veniva continuamente monitorata dai mercati finanziari internazionali.

Per uscire dalla crisi l'Italia avrebbe dovuto agire su due fronti:

  1. attuare le riforme necessarie per rimuovere le caratteristiche recessive presenti nel sistema socio-economico in modo da renderlo più competitivo;
  2. stimolare gli investimenti privati.

Gli strumenti classici per stimolare gli investimenti sono le politiche monetarie e le politiche fiscali, tuttavia le istituzioni italiane non avevano margini di manovra nè per attuare politiche monetarie, avendo rinunciato alla sovranità monetaria con l'adesione all'Euro, nè per attuare politiche fiscali espansive a causa dell'eccessivo livello di indebitamento pubblico e dei vincoli di bilancio imposti dal patto di stabilità europeo.

Lo stimolo agli investimenti arrivò, infatti, direttamente dalle istituzioni europee, sia attraverso l'operazione di Quantitave Easing predisposta in data 22 Gennaio 2015 dalla Banca Centrale Europea (il QE è uno strumento non convenzionale di politica monetaria che sostituisce il classico abbassamento dei tassi d'interesse, essendo questi già molto bassi), sia attraverso il discusso piano Juncker del 26 Novembre 2014, dal nome del presidente della Commissione Europea, che prevedeva investimenti per circa 300 miliardi di Euro. Inoltre, anche la congiuntura economica - abbassamento del prezzo del petrolio e svalutazione dell'euro - sembrava volgere, almeno temporaneamente, in favore della ripresa economica.

Trattandosi di stimoli agli investimenti a livello europeo, diretti a una pletora di sistemi economici, non era automatico aiutassero i paesi che più ne avevano bisogno, anzi c'era il rischio che potessero ampliare il divario di competitività esistente tra i paesi europei favorendo i sistemi economici più reattivi a discapito di quelli più ingessati. Infatti, gli investimenti in Italia erano diminuiti nonostante i tassi di interesse fossero già molto bassi. In sostanza, in Italia per far funzionare lo stimolo agli investimenti bisognava superare tutte le altre barriere presenti nel sistema socio-economico.

Senza un adeguato piano di riforme strutturali che agisse in profondità sul sistema socio-economico italiano, gli interventi di politica economica messi in campo dall'Unione Europea sarebbero stati insufficienti per far ripartire la crescita economica del paese.

Era fondamentale attuare un piano di riforme strutturali in grado di eliminare le inefficienze di sistema che allontanavano gli investitori e frenavano la crescita. Occorreva ammodernare, sveltire e semplificare la pubblica amministrazione, migliorare il sistema del welfare per metterlo in grado di sostenere la domanda interna in caso di shock economici, accorciare i tempi della giustizia civile e penale, diminuire il livello di tassazione sui redditi da lavoro e le imposte dirette sulle imprese, implementare efficaci sistemi di controllo, sia nel settore pubblico che in quello privato, sui conflitti di interesse, sull'evasione fiscale e sulla corruzione, favorire sistemi di finanziamento alle imprese alternativi al sistema bancario, alleggerire il peso del debito pubblico, attuare efficaci politiche ridistributive in grado di limitare le rendite di posizione, migliorare le organizzazioni e le istituzioni connesse al mondo del lavoro come i centri per l'impiego, i sindacati e le università, incentivare la ricerca e l'economia della conoscenza per accrescere la produttività e la remunerazione dei lavoratori.

Il grosso del lavoro per far ripartire e accelerare la crescita economica andava quindi fatto dalle istituzioni e dalla politica, attraverso un programma di riforme ambizioso e impegnativo come, ad esempio, quello attuato in Germania dopo la riunificazione.

Tuttavia, per riuscire ad attuare tutte queste riforme i governi italiani si sono scontrati con i limiti del suo sistema parlamentare che è apparso bloccato e inadeguato rispetto alle sfide che il paese doveva affrontare. Infatti, nonostante l'obiettivo prioritario dei governi Monti e Letta fosse quello di attuare riforme radicali, a parte la discussa riforma delle pensioni, furono attuati solamente interventi tampone. Similmente, i governi Renzi e Gentiloni a partire dal 2015 videro ripartire una stentata crescita economica ma non riuscirono a varare riforme decisive in grado di rendere il paese reattivo, e magari proattivo, rispetto all'evoluzione del sistema economico mondiale ed europeo.

Per realizzare riforme economiche efficaci sarebbe stato opportuno intervenire sul funzionamento delle istituzioni attraverso una riforma istituzionale in grado di dare al paese un parlamento efficiente e un governo efficace. Il parlamento italiano a tutt'oggi non è in grado di produrre leggi semplici ed efficaci, mentre il governo incontra troppi ostacoli nel far applicare le leggi in tempi ragionevoli, senza annacquamenti ed eccezioni, anche a causa della troppa burocrazia.