Le vere cause della crisi economica italiana 2008-2014

Periodo di riferimento: 2000 - 2014
L’economia italiana ha dovuto fronteggiare due shock economici - le conseguenze della crisi finanziaria del 2007 e la crisi dei debiti sovrani del 2011 - mentre era ormai da tempo in stagnazione, gravata da evidenti problemi strutturali. Infatti, la crisi del sistema economico italiano matura lentamente a partire dai primi anni del 2000 sia per l’assenza delle riforme necessarie a rendere più competitivo il sistema nel suo complesso, sia per la sottovalutazione dei cambiamenti generati dalla crescente globalizzazione e dall’adozione dell’Euro, una moneta forte che avrebbe ovviamente favorito l’importazione di semilavorati a basso costo a scapito della produzione locale in conto terzi. Nessuna politica economica fu predisposta per guidare o aiutare le imprese a gestire i cambiamenti del contesto economico.

Una immagine che evoca la crisi economica italiana

La crisi economica italiana matura lentamente a partire dai primi anni del 2000.

Prima dell'introduzione della moneta unica europea il modello di sviluppo dell'economia italiana era basato sulle esportazioni e sulla svalutazione competitiva della lira. Vi erano dei pro e dei contro (tra cui elevati tassi d'inflazione e crescita dell'indebitamento statale), ma l'economia cresceva. Questo modello di sviluppo faceva si che le imprese italiane fossero abituate a competere sui mercati internazionali in parte puntando sui prezzi più bassi della concorrenza (grazie a una moneta debole come la Lira e non per l'efficienza del sistema produttivo) e in parte puntando sulla qualità e sul made in Italy.

La stagnazione della produttività, l’impoverimento della classe media e la perdita di fiducia

Dopo l'adozione dell'Euro, il 1 gennaio 1999, era prevedibile un mutamento della struttura produttiva italiana sia a livello macro, con il progressivo abbandono delle produzioni generiche e di scarsa qualità in favore delle produzioni a più alto valore aggiunto, che a livello micro, con le singole imprese che avrebbero cercato di adattarsi al mutato contesto economico investendo in produttività e qualità.

Tuttavia l'imprenditoria italiana, forse non sufficientemente preparata ad affrontare questa sfida, forse condizionata dai pregiudizi e dai vizi del capitalismo italico, piuttosto che investire per restare competitiva innalzando la produttività e la qualità scelse una via più conservativa che non comportasse un aumento dei capitali di rischio, ovvero si limitò a ridurre i costi di produzione sia attraverso l'approvvigionamento all'estero dei prodotti semilavorati (che grazie all'adozione di una moneta forte come l'Euro era diventato conveniente importare), sia attraverso l'introduzione della cosiddetta flessibilità del mercato del lavoro.

Banalmente, le aziende manifatturiere invece di acquistare in Italia o di produrre direttamente realizzarono che era molto più conveniente importare i prodotti semilavorati dall'estero e che attraverso questa riduzione dei costi potevano restare competitive. Questo processo di internazionalizzazione delle aziende italiane avviato a partire dai primi anni del 2000 ebbe importanti conseguenze.

Una prima conseguenza fu la scomparsa di interi distretti industriali e artigianali, di una miriade di piccole e medie imprese che producevano per conto terzi. Le aziende più piccole furono costrette a cessare la loro attività mentre le aziende più grandi e organizzate avviarono processi di delocalizzazione in paesi a basso costo di manodopera. Una parte del settore manifatturiero italiano, quello più esposto alla concorrenza internazionale sui prezzi, fu abbandonato a se stesso. Nessuna politica industriale fu predisposta per indirizzare i cambiamenti e, nel silenzio delle istituzioni economiche e dei sindacati (le aziende in difficoltà spesso avevano meno di quindici dipendenti), venne disperso un consistente patrimonio di competenze artigianali accumulate in decenni di attività, competenze che invece avrebbero potuto essere sfruttate per impostare processi di riconversione.

Una seconda conseguenza attiene al surplus di profitti generato dalla riduzione dei costi di produzione e dalle ristrutturazioni avviate nel settore manifatturiero grazie anche alla flessibilizzazione del mercato del lavoro. Per la maggior parte l'accresciuta disponibilità finanziaria delle aziende non fu reinvestita per aumentare la produttività e la qualità dei prodotti, né in attività produttive innovative, ma fu incanalata nel settore finanziario spesso a scopi speculativi.

Nello stesso periodo, la riduzione dei costi di produzione coinvolgeva anche i lavoratori, sia attraverso la complicità dei sindacati con la cosiddetta "politica dei redditi" (frutto della concertazione tra organizzazioni sindacali, organizzazioni dei datori di lavoro e governo) finalizzata a contenere la crescita dei redditi percepiti da tutti gli agenti economici (l'ultimo accordo prima della fine della concertazione è il Patto per l’Italia - Contratto per il lavoro del 2002), sia attraverso la riforma del lavoro con la legge 14 febbraio 2003 n. 30 (Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro), nota comunemente come legge Biagi, varata per introdurre nel mercato del lavoro la cosiddetta flessibilità ma che, di fatto, ha comportato un forte aumento del lavoro precario.

Nei primi anni 2000 è stato avviato un processo di impoverimento della classe media sia attraverso l'internazionalizzazione selvaggia delle aziende e le politiche di contenimento del costo del lavoro, sia attraverso la perdita del potere di acquisto dei salari conseguente alla crescita dell'inflazione.

Occorre evidenziare che si trattava di una inflazione negativa, infatti l'aumento dei prezzi non era generato dalla crescita dell'economia italiana ma da fattori esterni: il progressivo aumento delle quotazioni del petrolio (che nel corso del 2008 superò i 100 dollari al barile), l'aumento del costo delle materie prime e, a partire dal secondo semestre 2002, l'indiscriminato e ingiustificato aumento dei prezzi verificatosi con l'introduzione dell'Euro.

Per inciso, una volta abbandonato il sistema di doppia circolazione delle due monete, nonostante il tasso di cambio iniziale con l'euro fosse di 1936,27 lire per un effetto psicologico un euro divenne progressivamente l'equivalente di mille lire. Si trattò di una inflazione "selettiva", sia perché nel paniere ISTAT il costo di molti beni secondari, ad esempio quelli tecnologici, diminuì sterilizzando il tasso di inflazione complessivo, sia perché la diminuzione del potere di acquisto colpì quasi esclusivamente i salari rigidi, cioè il lavoro dipendente, mentre i profitti di artigiani, commercianti e imprese crescevano. Il risultato fu che a distanza di poco tempo dall'abbandono della Lira (l'Euro fu adottato dall'Italia come moneta di conto il 1° Gennaio 1999 e come moneta fisica il 1° Gennaio 2002, ma in regime di doppia circolazione con la lira fino al 1° Marzo 2002) il potere d'acquisto dei salari da lavoro dipendente, per i beni primari e nel settore privato in particolare, era quasi dimezzato.

Questa situazione di fragilità dell'economia italiana si trascinò nell'indifferenza delle istituzioni fino a quando nel 2007 esplose la crisi finanziaria internazionale. La crisi finanziaria del 2007 in una prima fase non sembrò avere effetti sull'economia italiana, tuttavia dopo che le economie reali furono contagiate e che furono colpiti i mercati di sbocco delle esportazioni italiane anche in Italia si avvertirono le conseguenze della crisi, in particolare con il crollo della domanda di beni dall'estero. 

E' così che le aziende manifatturiere italiane, per la maggior parte delle quali una quota consistente del fatturato dipendeva dalle esportazioni, nel biennio 2008/2009 entrarono in sofferenza e reagirono con una serie di contromisure: la saturazione della domanda interna, l'apertura di nuovi mercati d'esportazione e, soprattutto, l'adozione di una strategia tesa a riconquistare le quote di mercato perse rendendo i propri prodotti più competitivi. 

Per rendere i propri prodotti più competitivi il settore manifatturiero italiano si lanciò per l'ennesima volta in una corsa alla riduzione dei costi di produzione - in quella situazione era una reazione obbligata considerato che l'innalzamento della qualità e della produttività richiede tempi relativamente lunghi e investimenti difficili da programmare in un contesto di difficoltà e incertezza - finendo per concentrare i suoi sforzi su un'ennesima riduzione del costo del lavoro, poiché gli altri costi di produzione non erano più comprimibili mentre il sistema produttivo restava gravato da elevati costi di sistema, come ad esempio per l'energia e la tassazione.

Infatti, il settore manifatturiero italiano a partire dal 2009 fu attraversato da una crescente ondata di riorganizzazioni aziendali finalizzate ad abbassare il costo della manodopera attraverso tagli al personale, compressione dei redditi da lavoro dipendente, aumento dei contratti atipici e delocalizzazione degli impianti produttivi.

Ma questi cambiamenti nel sistema manifatturiero italiano determinarono un primo forte aumento della disoccupazione e l'ennesima diminuzione del reddito disponibile della classe media.

Fino al 2010 l'impoverimento della classe media era stato in parte mascherato da un aumento dell'indebitamento delle famiglie italiane che, confidando in una soluzione ormai a breve termine della crisi, non ridussero il proprio tenore di vita influenzate anche dalla "moral suasion" del Governo italiano, il quale invitava i cittadini a spendere di più per far ripartire l'economia. Ma quando la ripresa economica mondiale tra il 2010 e il 2011 lasciò fuori l'Italia (il PIL italiano segnò un valore positivo solo per l'anno 2010 con un tasso di crescita di circa 1,7 punti, un rimbalzo al -5,5 dell'anno precedente nemmeno sufficiente a dare una boccata di ossigeno all'economia italiana) le caratteristiche strutturali della crisi economica italiana nel corso del 2011 divennero evidenti concretizzandosi nel calo della domanda interna (consumi e investimenti).

Il crollo della domanda interna era la conseguenza finale del progressivo impoverimento della classe media, un impoverimento verificatosi nel corso degli anni precedenti a causa delle politiche di compressione dei salari, della perdita di potere di acquisto dei redditi da lavoro, della crescita della cassa integrazione e della disoccupazione, crescita a sua volta provocata dalle ristrutturazioni e delocalizzazioni aziendali finalizzate al contenimento dei costi di produzione.

Nonostante la crescita delle esportazioni, unico dato positivo nel corso del 2011, il calo della domanda interna generò una nuova ondata di fallimenti, ristrutturazioni aziendali, licenziamenti, aumento della cassa integrazione e crescita della disoccupazione.

Inoltre, le perduranti difficoltà delle famiglie e delle imprese italiane furono ulteriormente aggravate dalla crescente difficoltà di accesso al credito poiché nell'estate 2011 esplose la crisi del debito sovrano italiano. Infatti, il virtuale congelamento del mercato delle obbligazioni bancarie conseguente all'esplosione della crisi dello "spread" determinò una crescente difficoltà delle banche di elargire finanziamenti a tassi ragionevoli e una stretta del credito (credit crunch).

Nel corso del 2012 la situazione economica dell'Italia ha continuato a essere negativa con crescita della disoccupazione, in particolare quella giovanile, calo dei consumi e investimenti scarsi, riduzione del credito e contrazione del PIL e non è migliorata nemmeno negli anni seguenti fino a tutto il 2014.

L'impoverimento della classe media testimoniato dalle crescenti difficoltà economiche dei lavoratori (che pur lavorando otto ore al giorno non riescono ad arrivare a fine mese), il crollo dei consumi, degli investimenti e della fiducia, la scarsa o assente crescita hanno evidenziato che il sistema economico italiano era affetto da problemi strutturali.

I problemi strutturali dell’economia italiana

Man mano che aumenta la competizione economica con le altre nazioni diventano sempre più evidenti le caratteristiche recessive di diverse componenti del sistema socioeconomico italiano.

In primo luogo, occorre considerare l'impatto che l'ambiente economico esercita sugli investitori e sulla capacità di competere dei soggetti economici. Il contesto nel quale i soggetti economici si sono trovati a operare in Italia è stato scoraggiante, infatti, all'apice della crisi il potenziale dell'Italia nel trattenere e attrarre capitale finanziario e investimenti si era quasi azzerato.

Contribuiscono a rendere inospitale l'ambiente economico italiano:

  • l'eccessiva burocratizzazione delle procedure amministrative, unita all'inefficienza e agli sprechi della pubblica amministrazione, che determina un aumento dei costi e delle tempistiche d'impresa;
  • l'inefficacia del sistema di welfare (pensioni e assistenza) che, oltre essere ingiusto, non è strutturato per sostenere la domanda interna in caso di shock economici, poiché sono tutelate solo determinate fasce di popolazione tra l'altro spesso già privilegiate rispetto ad altre fasce di popolazione senza alcuna tutela;
  • l'incertezza e la lentezza della giustizia civile e penale che creano ostacoli all'instaurarsi di un adeguato livello di fiducia tra contraenti o concorrenti mentre favoriscono l'economia sommersa e illegale; 
  • l'elevato livello di tassazione sui redditi da lavoro che deprime l'economia; 
  • la mancanza di sistemi di controllo nel settore pubblico e privato nonché di leggi sui conflitti d'interesse in grado di scoraggiare l'evasione fiscale e la corruzione e di favorire processi di selezione meritocratica e concorrenza leale;
  • la mancanza di un sistema di finanziamento alternativo al sistema bancario in grado di stimolare gli investimenti nelle start-up e di scoraggiare la fuga di capitali
  • il peso e la continua crescita del debito pubblico che potrebbe far collassare all'improvviso l'economia italiana qualora un eccessivo rialzo dei tassi d'interesse dovesse renderlo insostenibile;
  • l'assenza di efficaci politiche ridistributive in presenza di una distribuzione della ricchezza troppo squilibrata che favorisce le rendite di posizione a discapito degli investimenti produttivi;
  • la scarsa efficacia delle organizzazioni e delle istituzioni connesse al mondo del lavoro, come ad esempio i centri per l'impiego, i sindacati e le università, che non riescono a incentivare la ricerca e l'economia della conoscenza per accrescere, attraverso l'istruzione, la formazione e il merito, lo sviluppo di competenze, la produttività del lavoro e le remunerazioni dei lavoratori.

Esiste poi un problema strutturale a livello microeconomico dal lato dell'offerta di beni e servizi, ovvero la scarsa competitività di una parte del sistema produttivo italiano caratterizzato da:

  • produzioni poco tecnologiche;
  • insufficienti investimenti sulla qualità e sulla ricerca;
  • eccessiva frammentazione;
  • una produttività mediamente bassa;
  • un sistema finanziario e di controllo societario poco trasparente (che favorisce i cartelli e le rendite di posizione);
  • il corporativismo delle organizzazioni imprenditoriali e professionali;
  • la mancanza di adeguati sistemi premianti e di riconoscimento economico del merito.

Esiste, infine, un problema dal lato della domanda come testimoniato dall'avvitamento della crisi economica 2008-2014. Le economie occidentali non possono sottovalutare l'importanza di mantenere mediamente alto il tenore di vita dei cittadini. Infatti, nelle economie mature la soddisfazione della maggior parte dei bisogni primari della popolazione è data per scontata, in quanto buona parte dell'economia gira attorno a bisogni secondari e a consumi di massa. In altre parole, la crescita dei consumi aggregati della fascia più ricca della popolazione non può compensare nemmeno lontanamente la carenza di domanda dovuta all'impoverimento della maggior parte della popolazione. Inoltre, senza una domanda interna di beni e servizi sufficientemente ampia e strutturata, una economia matura priva di risorse naturali come l'Italia è destinata a perdere competitività anche nelle esportazioni.

Tuttavia, un altro aspetto che incide sulla domanda di beni e servizi è la fiducia nel sistema economico. Se la popolazione ha delle percezioni negative riguardo al futuro tenderà a ridurre i consumi, a risparmiare ma senza investire nel medio-lungo periodo, deprimendo ulteriormente l'economia.

In Italia abbiamo avuto entrambe le condizioni negative che deprimono la domanda di beni e servizi. C'è stata una crisi di fiducia che ha coinvolto i cittadini, la politica e le istituzioni incapaci di attuare le riforme di cui il paese aveva bisogno per tornare a crescere. Ci sono stati gravi errori di politica economica successivamente all'adozione dell'Euro che hanno causato l'impoverimento della classe media e l'aumento delle fasce povere di popolazione.

Se i problemi strutturali che hanno generato la crisi economica non verranno risolti continueranno a determinare una scarsa o assente crescita economica, almeno fino a quando eventuali nuove turbolenze nel sistema economico europeo o internazionale non daranno la spallata definitiva all'economia italiana.