Autonomie e Enti Locali

Gli Stati, a meno che non siano particolarmente piccoli, devono necessariamente avvalersi della collaborazione di unità amministrative distribuite sul territorio e delle unità organizzative preesistenti alla formazione dello Stato e sorte autonomamente per gestire le necessità di una comunità. Il rapporto che si instaura tra lo Stato centrale e le unità territoriali, le loro caratteristiche organizzative e le funzioni che svolgono contribuiscono a caratterizzare la forma di Stato. L’organizzazione di uno Stato può tendere al centralismo, ovvero mirare a un modello organizzativo in cui le funzioni amministrative delle unità periferiche sono ridotte al minimo e gerarchicamente sottoposte al potere statale, oppure al decentramento che consiste nel delegare alle unità periferiche tutte le funzioni amministrative che non è necessario gestire centralmente e concedere ai vari enti un certo grado di autonomia organizzativa, gestionale e politica. Il grado di autonomia concessa dallo Stato centrale italiano varia in base alla natura e alle funzioni degli enti e nel caso delle regioni include anche una prerogativa legislativa.

Italia e regioni - simbolo

Le autonomie sono comunità dotate della capacità di autodeterminarsi attraverso un’organizzazione e un governo autonomi. L’autonomia di comunità inserite in un’organizzazione più grande e complessa come uno Stato è necessariamente più limitata, per cui sono state definite diverse forme di autonomia come, ad esempio:

  • l'autonomia statutaria che consente alle comunità di disciplinare la propria organizzazione e funzionamento;
  • l'autonomia normativa che rappresenta la capacità di emanare norme giuridicamente vincolanti;
  • l'autonomia finanziaria che si sostanzia nella capacità di gestire il proprio patrimonio e le proprie fonti di entrata, ad esempio attraverso l'imposizione di tributi;
  • l'autonomia giuridica, intesa come capacità di agire in campo giuridico per il raggiungimento delle proprie finalità, ad esempio attraverso la stipula di contratti privatistici.

La storia d’Italia è costellata di comunità che hanno saputo costruirsi un alto grado di autonomia rispetto al potere centrale a partire dall’epoca feudale fino alle fiorenti città rinascimentali. Successivamente, con l’introduzione del modello amministrativo francese conseguente al dominio napoleonico e con l’unità d’Italia, la tradizione autonomistica delle comunità italiane è stata sacrificata a favore di una organizzazione statale accentrata, che ha trovato il suo apice nella dittatura fascista.

La promulgazione della Costituzione della Repubblica Italiana ha poi restituito alle autonomie un ruolo importante nel contesto dell'organizzazione statale, elevando le autonomie a valore di principio democratico, infatti l'Art. 5 recita: "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento".

Gli enti autonomi

Il principio autonomistico enunciato dalla Costituzione, e ancor prima l'evoluzione del diritto pubblico, hanno consentito la formazione di enti pubblici autonomi attraverso i quali le collettività esercitano concretamente il diritto all'autogoverno e al perseguimento di interessi autonomi rispetto al potere centrale (rappresentato dallo Stato o anche da altri enti pubblici), purché i suddetti interessi non siano in contrasto con interessi pubblici di ordine superiore, come ad esempio l'interesse nazionale.

In sostanza, gli enti autonomi si contrappongono ai cosiddetti enti strumentali che perseguono interessi propri di un altro ente pubblico gerarchicamente sovraordinato con il quale hanno un rapporto di soggezione.

Uno dei principali elementi distintivi delle autonomie è che i componenti degli organi di gestione dell'ente sono espressione della collettività che rappresentano, infatti sono generalmente scelti all'interno della comunità e sono eletti o nominati dalla comunità.

Gli enti autonomi possono essere distinti in enti territoriali, quando rappresentano la collettività di un determinato territorio, ed "enti ad autonomia funzionale", quando rappresentano determinate categorie o specifici settori. Ad esempio, sono enti territoriali le Regioni, le Province e i Comuni, mentre sono enti ad autonomia funzionale le Camere di commercio, gli Ordini professionali, le Università degli studi. Inoltre, gli enti di entrambe le tipologie sono considerati enti locali quando hanno competenza solamente su una determinata circoscrizione territoriale dello Stato.

Tra gli enti territoriali godono di una particolare rilevanza i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni essendo la loro autonomia prevista ed in parte disciplinata dal Titolo V della Costituzione.

La Costituzione e l’attuazione delle autonomie e del decentramento amministrativo

La Costituzione della Repubblica italiana per un verso sancisce il principio dell'autonomia di una pluralità di corpi sociali e territoriali (art. 5), per l'altro verso fonde il significato di autonomia al concetto di democrazia, poichè l'autogoverno delle comunità territoriali deve realizzarsi attraverso la costituzione di organi direttamente rappresentativi (Titolo V). Sono, infatti, specificatamente indicati tre livelli di autonomia territoriale dotati di istituzioni politiche rappresentative (le Regioni, le Province ed i Comuni), ma alle Regioni si conferisce un ruolo soprattutto legislativo e programmatorio mentre ai Comuni e alle Province funzioni essenzialmente amministrative e operative.

L'autonomia regionale, pur essendo le Regioni già previste nella Costituzione entrata in vigore il 1 Gennaio 1948, venne attuata formalmente solamente 20 anni dopo, con la promulgazione della legge N.108 del 1968, e divenne operativa a partire dal 1970 con le prime elezioni regionali e poi nel 1972 con l'emanazione dei decreti delegati per il trasferimento di alcune funzioni amministrative dallo Stato allo Regioni.

Con l'attuazione degli artt.117 e seguenti della Costituzione le Regioni assumevano le caratteristiche di enti pubblici territoriali dotati di sovranità derivata e di autonomia legislativa, con funzioni proprie delegate e ripartite, e con lo Stato che avrebbe esercitato una funzione di indirizzo e coordinamento in determinate materie attraverso leggi quadro e attraverso l'attività amministrativa del Governo.

Subito dopo l'attuazione delle autonomie regionali si determinarono forti conflitti tra Stato e regioni, poiché mentre le istituzioni dello Stato miravano a ri-accentrare i propri poteri nei confronti delle regioni, queste miravano ad ampliare ulteriormente la propria autonomia.

Le regioni, inoltre, riuscendo ad accentrare competenze a discapito degli enti territoriali minori, come le provincie, i comuni, i consorzi, le comunità, si sono rese protagoniste di un processo di "amministrativizzazione", che la ha trasformate da enti di legislazione e programmazione in strutture di gestione, con conseguente crescita progressiva di burocrazie e uffici regionali nonché di una miriade di enti o apparati strumentali creati in alternativa al decentramento agli enti locali.

Emblematica, e in parte causa, del processo di amministrativizzazione delle regioni è stata la costituzione e poi l'evoluzione del Servizio Sanitario Nazionale, che rappresenta anche il nuovo modello di controllo delle autonomie locali da parte del Governo attraverso l'imposizione di vincoli di bilancio pubblico.

Il progetto contenuto nella carta costituzionale originale, invece, assegnando alle autonomie un ruolo costitutivo della Repubblica, mirava a valorizzare la potestà legislativa delle Regioni ed a spostare in modo sostanziale il baricentro dell’amministrazione pubblica sugli enti locali.

Problemi irrisolti delle autonomie

Il tema delle autonomie e degli enti locali ruota tutto attorno alla ripartizione delle competenze tra il potere statale e gli enti autonomi e tra gli stessi enti locali.

La ripartizione di competenze, ruoli e funzioni troppo spesso ha generato e genera conflitti espliciti o latenti ed è argomento di una continua discussione politica che testimonia il mancato raggiungimento di un equilibrio stabile tra autonomie e potere centrale e tra le stesse autonomie.

Ai conflitti si aggiungono i frequenti malfunzionamenti delle autonomie, le confusioni di competenze, le disomogeneità e inadeguatezze degli assetti organizzativi, le diffuse inefficienze gestionali e gli sperperi di risorse ai quali si accompagna anche un evidente degrado delle classi dirigenti locali.

Eppure gli interventi legislativi di riforma non sono mancati, a partire dalla riforma generale dell’ordinamento delle autonomie locali approvata con la legge 142 del 1990, alla riforma del c.d. federalismo amministrativo del 1997 con le leggi Bassanini, alla riforma costituzionale del titolo V del 2001, alla controversa introduzione del c.d. federalismo fiscale con la legge n. 42 del 2009 che aveva l’obiettivo di responsabilizzare gli enti autonomi territoriali sul piano della gestione finanziaria, al tentativo di riforma del Titolo V con la riforma costituzionale 2016 poi bocciata dal referendum confermativo.

Probabilmente, per evitare che le autonomie si trasformino in scatole vuote o al contrario siano frustrate da leggi troppo restrittive, occorrerebbe un approccio differenziato basato sulla genesi stessa delle autonomie.

Quando l'esigenza di autonomia proviene dal basso, ovvero rappresenta l'espressione concreta degli interessi di una comunità motivata e capace di organizzarsi, si potrebbero concedere più spazi di autonomia, da contemperare con il rischio che la comunità sia portata a difendere i propri interessi anche a discapito degli interessi pubblici di ordine superiore (come ad esempio la sindrome NIMBY).

Quando, invece, l'autonomia è calata dall'alto, ovvero è costituita dai poteri centrali per delegare ruoli e responsabilità, occorrerebbe potenziare i controlli poiché il rischio è quello di generare organizzazioni autonome inadeguate a causa della scarsa qualità degli atti formali e delle decisioni, nonché della stessa classe dirigente degli enti, con ulteriori conseguenze negative come, ad esempio, la diffusione della corruzione.

Riferimenti

Istituzioni

Normativa base