Industria e servizi

Il fallimento delle politiche industriali tradizionali, orientate dal dirigismo statale e dalla pianificazione della crescita di settori industriali considerati più o meno strategici per lo sviluppo economico del paese, aveva generato in Italia un certo grado di disinteresse verso le politiche industriali in generale e una sottovalutazione del ruolo della piccola e media impresa nel tessuto economico italiano (complici anche i sindacati orientati quasi esclusivamente dalle relazioni industriali delle grandi aziende). Le conseguenze negative di questo atteggiamento sono state particolarmente gravi subito dopo l’adozione dell’euro, infatti non fu predisposta nessuna politica economica per contrastare gli effetti negativi della globalizzazione, come ad esempio l’esposizione improvvisa alla concorrenza internazionale di interi distretti industriali composti da piccole e medie aziende, che quando non hanno cessato l’attività hanno delocalizzato la produzione in paesi a basso costo di manodopera. Oggi la situazione è cambiata e l’attenzione delle istituzioni, soprattutto europee, nei confronti dei potenziali mutamenti di mercato (market shift) generati dalla crescente globalizzazione e dalla IV rivoluzione industriale, è molto alta.

Industria - simbolo

Il tema dello sviluppo dell'industria e dei servizi, ovvero dei settori secondario e terziario, è strettamente legato al tema della crescita economica. Generalmente lo sviluppo economico determina prima una riduzione del settore primario (l’agricoltura) dovuta all’espansione del settore secondario (l’industria) e poi una progressiva espansione del settore terziario (i servizi). Conseguentemente, il peso relativo dell’industria in una economia matura tende a diminuire progressivamente.

Qualora la riduzione del settore secondario sia marcata e la produzione industriale tenda a diminuire anche in valore assoluto, questo fenomeno viene descritto come deindustrializzazione.

Nelle economie mature, inoltre, lo sviluppo del settore terziario determina un progressivo accrescimento del valore dei beni intangibili dando luogo a ulteriori classificazioni che descrivono particolari modelli di produzione economica, tra cui il terziario avanzato, l'economia della conoscenza e la "new economy".

Il termine industria è oggi usato con una doppia accezione. Nel significato classico identifica una tipologia di produzione in cui le materie prime vengono trasformate, con l'ausilio di strutture specifiche e macchinari, in prodotti finiti da immettere sul mercato, eventualmente avvalendosi di prodotti cosiddetti semilavorati. Il riferimento classico è alla prima e alla seconda rivoluzione industriale.

In un'accezione moderna, invece, il termine industria identifica più propriamente il processo di produzione industriale che consiste nell'adozione di un metodo di produzione adatto a produrre grandi quantitativi, generalmente avvalendosi di un'organizzazione complessa e di processi standardizzati in grado di generare economie di scala. In questo caso, il processo di produzione industriale viene applicato anche al settore terziario, per cui si parla di industrializzazione sia di beni che di servizi o, ad esempio, di industria del cinema e della cultura. In linea di massima, l'accezione più ampia del termine industria si è affermata nel corso della terza rivoluzione industriale e probabilmente tenderà ad ampliarsi ulteriormente nel corso della quarta rivoluzione industriale, che è già iniziata.

Infatti, sebbene i processi di produzione industriale siano contrapposti ai processi di produzione artigianale, la quarta rivoluzione industriale (determinata dallo sviluppo di numerose tecnologie innovative come la digitalizzazione, l'industria 4.0, l'Internet delle cose, le biotecnologie, le nanotecnologie, etc.) va progressivamente riducendo la distanza tra questi due modelli di produzione rendendoli sempre più complementari, ad esempio con la stampa 3D e la produzione personalizzata.

In sintesi, lo sviluppo dell'industria e dei servizi (che ormai ingloba anche l'evoluzione delle attività artigianali e gli sviluppi dell'economia della conoscenza) rappresenta la colonna portante della crescita economica e dello sviluppo del paese.

Settore pubblico o privato

Si potrebbe erroneamente pensare che lo sviluppo dell'industria e dei servizi sia essenzialmente un problema del settore privato.

In estrema sintesi, poiché il mercato (escludendo i monopoli naturali) sarebbe più efficiente dello Stato nell'allocazione delle risorse, lo Stato dovrebbe occuparsi solamente della produzione di beni e servizi a fallimento di mercato. Questa teoria liberista fa da contraltare a un'altra teoria estrema derivata dall'idea di capitalismo della scuola marxista che, al contrario, considera fallimentare qualsiasi intervento del mercato.

Senza addentrarsi in discussioni teoriche sulla difficoltà di stabilire quali sono i beni e i servizi la cui produzione spetterebbe allo Stato e quali ai privati, le moderne economie occidentali, in particolare quelle europee, hanno sperimentato un'ampio ventaglio di possibilità aprendo il settore pubblico ai mercati e il mercato alle aziende pubbliche.

Sommando queste esperienze e sgombrando il campo dalle pastoie ideologiche, si rileva come nel corso della storia anche recente (come ad esempio nel caso delle privatizzazioni) non sempre i privati abbiano dato bella prova di se, così come lo Stato non sempre ha gestito male le sue proprietà industriali, anzi.

In passato, lo Stato ha gestito consistenti attività produttive (IRI) e tuttora si avvale di specifici strumenti giuridici per il controllo diretto di svariate attività economiche. Lo Stato, inoltre, è un formidabile committente in particolare di grandi opere pubbliche, quali reti e infrastrutture, mentre la Pubblica Amministrazione è il principale produttore di servizi del paese (protezione sociale, sanità, istruzione, etc.).

In sostanza, la scelta di affidare la gestione di determinate attività produttive di beni e servizi al pubblico o al privato non dipende da una presunta maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico o viceversa, poiché nessuno dei due ha il monopolio della buona gestione.

La scelta di affidare al pubblico o al privato determinate attività produttive è di tipo organizzativo e la conseguenza di opportune valutazioni di merito, come ad esempio il rispetto delle regole sulla concorrenza in un contesto di apertura dei mercati e di espansione del commercio internazionale (è evidente che lo Stato ha un potere enorme che può falsare la concorrenza).

D'altro canto, la scelta di favorire i privati nella formazione e nella gestione delle attività produttive viene superficialmente bollata come politica liberista, sottovalutando che il liberismo classico teorizza una totale assenza di regole. Invece, accade che le istituzioni statali, europee e finanche internazionali assoggettano i privati a molteplici regole, per la maggior parte mirate alla difesa dei consumatori e dell'ambiente o alla tutela della concorrenza, ad esempio con la formazione di autorità antitrust.

In sostanza, si tende a confondere il liberismo (inteso nell'accezione negativa di capitalismo selvaggio) e il neoliberismo con il processo di apertura dei mercati al fine di accrescere la concorrenza e il commercio internazionale. Questo fenomeno che in un'accezione più ampia viene definito globalizzazione, ammesso e non concesso che sia un processo in qualche modo eterodiretto piuttosto che un insieme di azioni e reazioni assimilabili alla teoria dei giochi, determina in realtà effetti auspicabili, poiché l'espansione della concorrenza e del commercio internazionale favoriscono i consumatori e la crescita economica. Le critiche più autorevoli al processo di globalizzazione riguardano, infatti, il modo ed eventualmente la tempistica con la quale questa si va realizzando.

Insomma, l'antitesi "più Stato", "meno Stato", troppo spesso utilizzata dalla politica per fini propagandistici, così come l'accusa di liberismo genericamente lanciata contro i governi, non aiuta a risolvere i problemi reali e paradossalmente porta a sottovalutare il ruolo del settore pubblico che invece è determinanate.

Infatti, il settore pubblico partecipa allo sviluppo dell'industria e dei servizi con almeno tre strumenti:

  • la gestione diretta di attività produttive, in particolare di servizi ma anche di attività che hanno una rilevanza strategica per il paese;
  • la regolamentazione dei settori produttivi e dei mercati, e più in generale degli adempimenti che le attività produttive devono assolvere in campo fiscale, amministrativo, ambientale, sanitario, etc.
  • le politiche industriali, generalmente condotte attraverso la predisposizione di incentivi, la realizzazione di infrastrutture, etc.

Industria, servizi e semplificazione amministrativa

L'economia italiana è ostacolata da un eccesso di regole e da una burocrazia pedante e pletorica che colpisce sia il settore pubblico che il privato, altro che liberismo o neoliberismo. Inoltre, la mole di adempimenti e procedure ridondanti contrasta fortemente con alcune situazioni in cui permane la totale assenza di regole o la sostanziale disapplicazione delle regole esistenti.

Troppo spesso nuove regole, adempimenti e procedure si sommano a quelle già esistenti senza prevedere la loro abolizione o quantomeno ad integrarle in un quadro complessivo coerente. Le norme si accavallano e si stratificano contribuendo a determinare il decadimento della qualità della legislazione italiana, a diffondere una sensazione di incertezza e la crescita di conflitti legali.

La politica troppo spesso si limita a una semplificazione propagandistica del problema proponendo una generica deregolamentazione di settori e mercati, impossibile da realizzare, e la cosiddetta semplificazione amministrativa che generalmente si risolve in piccoli aggiustamenti.

Sarebbe, invece, necessaria una seria riflessione politica sull'effettività delle regole esistenti, sulla capacità della Pubblica Amministrazione di applicarle senza contraddizioni, ritardi ed eccezioni, sulla facilità di elusione intrinseca a molte norme, o addirittura sulla necessità che alcuni operatori economici hanno di eludere o forzare alcune regole per sopravvivere in mercati sempre più competitivi.

Occorrono molte meno regole ma che siano rispettate da tutti, senza eccezioni. E' controproducente spendere tempo e risorse nel tentativo di far rispettare norme sostanzialmente inutili o magari giuste ma difficilmente applicabili, in un contesto economico caratterizzato da una elevata mobilità dei capitali e delle imprese. La crescente globalizzazione, infatti, accentua la facilità di elusione delle regole, soprattutto in campo finanziario e fiscale e riguardo al mercato del lavoro, per cui prese di posizione aprioristiche, ideologiche o propagandistiche allontanano la soluzione dei problemi non lasciando spazio al buonsenso e al pragmatismo.

Industria, servizi e mercato del lavoro

A partire dalla prima rivoluzione industriale, nei paesi occidentali la crescita dell'industria e dei servizi ha generato una consistente crescita della domanda di lavoro. Anzi, l'impatto dello sviluppo industriale sul mercato del lavoro è stato talmente forte da determinare lo spopolamento delle campagne e lo sviluppo di città e metropoli, la nascita di ideologie fondate sulla lotta di classe basata sul conflitto tra capitale e lavoro, l'intervento dello Stato a difesa dei diritti dei lavoratori subordinati.

La lotta di classe, prima, e l'intervento dello Stato, poi, sono servite a ridistribuire in maniera equa la ricchezza prodotta dal capitale grazie al lavoro. In altre parole, la crescita dell'industria e dei servizi e la crescita conseguente della domanda di lavoro costituivano la condizione di base che ha fatto emergere la necessità di tutelare i diritti dei lavoratori, al fine di garantire alla classe operaia condizioni di vita dignitose e benessere economico attraverso una distribuzione più equa della ricchezza prodotta da capitale e lavoro.

Successivamente, il quadro economico è cambiato ma il rapporto tra capitale e lavoro, o più precisamente tra datori di lavoro e lavoratori subordinati, è rimasto formalmente immutato grazie all'intervento dello Stato. Mentre la crescita dell'industria e dei servizi non riusciva più a garantire automaticamente il diritto al lavoro e i diritti dei lavoratori, gli Stati occidentali si fecero carico di garantire queste tutele attraverso:

  • politiche economiche espansive in grado di accrescere l'occupazione;
  • la regolamentazione del mercato del lavoro;
  • l'elaborazione di norme a tutela dei lavoratori.

Senonché per sostenere la crescita economica e la domada di lavoro gli Stati occidentali hanno dovuto implementare anche politiche tese a favorire gli investimenti e le imprese. Questa crescente necessità di sostenere oltre ai lavoratori anche i capitalisti (ad esempio attraverso agevolazioni in grado di contrastare la fuga di capitali e di imprese) ha minato alla radice la lotta di classe e, più in generale, la contrapposizione tra capitale e lavoro.

In altre parole, gli Stati occidentali si sono trovati nella condizione di non poter più agevolare gli uni senza essere accusati di penalizzare gli altri. E' emblematica, in Italia, la cosiddetta "politica dei redditi", attuata con la collaborazione dei sindacati, che aveva l'obiettivo di contenere la crescita dei redditi percepiti da tutti gli agenti economici o anche il varo della legge 14 febbraio 2003 n. 30, più conosciuta come legge Biagi, che avrebbe dovuto riformare in positivo il mercato del lavoro introducendo elementi di flessibilità ma che, invece, è stata utilizzata dalle imprese per abbassare i costi di produzione accrescendo la quota di lavoro precario.

Il risultato di queste tensioni contrastanti è che il mutamento del quadro economico negli Stati occidentali (determinato dalla globalizzazione e dalla mobilità dei capitali e delle persone) ha determinato difficoltà crescenti nel garantire ai cittadini il diritto al lavoro e la tutela dei diritti dei lavoratori (tra cui retribuzioni sempre adeguate).

Le rilevazioni statistiche sulla quota di reddito spettante al lavoro nelle economie mature sembrano confermare che il meccanismo di ridistribuzione della ricchezza implicito nello sviluppo dell'industria e dei servizi si va progressivamente inceppando.

Inoltre, si prospettano altri mutamenti del quadro economico che, sebbene non mettano in discussione la necessità di favorire la crescita economica e lo sviluppo dell'industria e dei servizi (perché, ad esempio, la crescita del PIL incide anche sulle risorse finanziarie a disposizione dello Stato), rendono il rapporto tra crescita economica e crescita delle opportunità di lavoro sempre più controverso.

Infatti, la crescita dell'industria e dei servizi nelle economie mature rischia di non generare più un saldo positivo tra nuovi posti di lavoro e posti di lavoro persi. Le innovazioni tecnologiche e la competizione internazionale nel contesto di una crescente globalizzazione rischiano di far diminuire progressivamente la domanda di lavoro subordinato. In altre parole, il capitale ha sempre meno bisogno del fattore lavoro "umano" per produrre ricchezza o quantomeno riesce a procurarselo a basso costo nei paesi emergenti.

Gli Stati occidentali dovranno quindi farsi carico di trovare nuove soluzioni, diverse o complementari al mercato del lavoro così come lo conosciamo oggi, al fine di ridistribuire la ricchezza prodotta dalla crescita economica. Altrimenti, di fronte a questo nuovo scenario si rafforzeranno correnti di pensiero politico che possono danneggiare lo sviluppo dell'industria e dei servizi e conseguentemente la crescita economica.

Siamo ovviamente lontani dalla manifestazione di fenomeni come il luddismo, ma si evidenziano già correnti politiche che contrastano apertamente lo sviluppo dell'industria e dei servizi che, non generando domanda di lavoro, creerebbe solo danni al benessere dei cittadini, mentre altre correnti di pensiero, più concilianti, ritengono che lo sviluppo dell'industria e dei servizi non debba essere demonizzato, ma che lo Stato debba intervenire per costringere in qualche modo le imprese ad accrescere la domanda di lavoro anche a costo di sacrificare parzialmente le loro possibilità di sviluppo.

Entrambi gli atteggiamenti aumentano esponenzialmente il rischio che la crescita economica non sia sufficiente per restare competitivi in un quadro di crescente competizione internazionale. Lo sviluppo dell'industria e dei servizi anche se non crea lavoro o addirittura lo distrugge è necessario per restare competitivi e soprattutto per mettere in cassa la crescita di ricchezza complessiva del paese. Parte della crescita di ricchezza generata dallo sviluppo economico finisce nelle casse dello Stato e serve a finanziare la protezione sociale, la sanità, l'istruzione, etc.

In questa ottica sono almeno due le principali criticità che coinvolgono la politica:

  • lo Stato dovrà farsi carico di raccogliere in maniera più efficiente i frutti della crescita economica, ad esempio migliorando il sistema fiscale e la lotta all'evasione e all'elusione, spostando la tassazione dal reddito da lavoro al reddito d'impresa, come tra l'altro raccomandato dalla Commissione europea già nel 2013;
  • lo Stato dovrà trovare metodi alternativi al lavoro subordinato per ridistribuire la ricchezza prodotta dalla crescita economica, garantita dallo sviluppo dell'industria e dei servizi, e tutelare con l'aiuto delle imprese la capacità di spesa dei consumatori.

Industria, servizi e globalizzazione

La globalizzazione rappresenta l'insieme dei processi di liberalizzazione dei mercati attuati dai singoli paesi e al tempo stesso la moltiplicazione dei paesi che partecipano agli scambi internazionali. La globalizzazione è stata favorita da accordi commerciali multilaterali tra Stati e da organismi internazionali interessati alla crescita del commercio internazionale.

La crescita del commercio internazionale favorisce statisticamente la crescita delle economie che vi prendono parte, ma le dinamiche di sviluppo dell'economia internazionale possono determinare strategie vincenti o perdenti a seconda del contesto e generare distorsioni nelle economie più deboli.

Ad esempio, i processi di globalizzazione per le multinazionali generano grandi vantaggi, mentre per lo sviluppo complessivo dell'industria e dei servizi di un singolo paese generano sia rischi che opportunità.

I rischi della globalizzazione sono rappresentati, ad esempio, dalla maggiore esposizione delle aziende nazionali alla concorrenza internazionale (sia nei mercati nazionali che in quelli d'esportazione), mentre le opportunità sono costituite, ad esempio, dalla possibilità di accedere a nuovi mercati di sbocco o a capitali di provenienza estera.

Per lo sviluppo dell'industria e dei servizi i processi d'internazionalizzazione sono ormai diventati essenziali per la maggior parte dei settori di produzione: per l'esportazione, per l'importazione di materie prime, per l'acquisizione di conoscenze e tecnologie competitive e altri fattori produttivi.

Tra i fattori produttivi vanno annoverati anche il capitale e il lavoro. La globalizzazione assieme allo sviluppo tecnologico ha rivoluzionato il modo in cui le imprese si approcciano al capitale e al lavoro, determinando delle criticità non solo per lo sviluppo dell'industria e dei servizi ma anche per l'evoluzione della società nel suo complesso.

L'estrema mobilità dei capitali che possono essere spostati da un paese all'altro facilmente e rapidamente, per un verso ha determinato la possibilità di investire in più paesi diversificando il rischio e di reperire più facilmente capitali di rischio per le attività produttive. Per l'altro verso, ha favorito la speculazione internazionale, la contagiosità delle bolle speculative e delle crisi economiche, l'evasione e l'elusione fiscale e la proliferazione dei paradisi fiscali.

Per quanto riguarda il lavoro, invece, la globalizzazione ha consentito alle aziende sia di produrre direttamente nei paesi con un basso costo di manodopera, sia di importare a basso costo prodotti ad alto contenuto di manodopera.

Per inciso, il fenomeno della delocalizzazione degli impianti produttivi non colpisce solo l'industria ma anche i servizi (ad esempio i call center, le funzioni amministrative, lo sviluppo software, etc.), e ha determinato un nuovo modello di produzione in molti settori. In sintesi, nel sistema di produzione internazionale le diverse fasi della produzione sono localizzate nei paesi che offrono le condizioni più favorevoli. Ad esempio, le fasi di ricerca e sviluppo, progettazione e ingegnerizzazione vengono generalmente svolte nei paesi occidentali, mentre le fasi di produzione che necessitano manodopera vengono svolte nei paesi con basso costo del lavoro.

La globalizzazione ha generato anche una forma di competizione più macroscopica, una competizione tra sistemi e sottosistemi economici e organizzativi come ad esempio i sistemi fiscali, i sistemi di formazione, ricerca e istruzione, i sistemi amministrativi e regolatori, e così via.

Quest'ultimo aspetto ha determinato la nascita di sistemi organizzativi appositamente studiati per attrarre nuove attività produttive dall'estero, ovvero le cosiddette zone franche o piattaforme di esportazione, costituite da un territorio circoscritto dotato di buone infrastrutture e servizi dove sono in vigore esenzioni doganali, riduzioni fiscali e regolamenti in deroga alle normative sulla tutela del lavoro e dell’ambiente.

Più in generale, le politiche di attrazione di investimenti esteri di diversi paesi riservano condizioni particolarmente favorevoli alle multinazionali straniere, mentre le imprese nazionali vengono spinte ad internazionalizzarsi, ad esempio, attraverso incentivi e crediti agevolati alle esportazioni.

Questo è in sintesi il contesto, estremamente competitivo, nel quale l'industria e i servizi nazionali devono crescere e svilupparsi. Naturalmente, non tutti i settori produttivi sono esposti allo stesso modo e con la stessa intensità alle sfide imposte dalla crescente globalizzazione, ma la direzione è già tracciata.

In linea di massima, le aziende ad alta intensità di capitale e tecnologia, con una produttività elevata e un alto valore aggiunto possono continuare a produrre in Italia, mentre le aziende ad alta intensità di manodopera, con una produttività bassa e poco valore aggiunto non possono più essere competitive se gravate della normale struttura dei costi del sistema economico italiano.

Volgendo lo sguardo all'indietro, occorre evidenziare come sullo sviluppo delle attività produttive italiane abbia inciso profondamente la creazione del mercato unico europeo e dell’Unione economica e monetaria.

L'Unione Europea può essere rappresentata anche come una sorta di mini-globalizzazione, graduale, controllata e in una certa misura protetta, che ha preparato il sistema produttivo italiano ad affrontare la globalizzazione mondiale e ha portato in dotazione alcuni strumenti di fondamentale importanza, come ad esempio una valuta forte ed un mercato interno di circa 500 milioni di abitanti (28 paesi).

Come la globalizzazione, l'integrazione europea poggia su un insieme di processi di liberalizzazione finalizzati ad espandere il commercio tra Stati europei e la concorrenza, tra cui: l’eliminazione delle barriere non tariffarie all'interno dell'UE, l’elaborazione di regolamenti per contrastare i monopoli pubblici e privati, la liberalizzazione di molti settori inclusi i servizi erogati da aziende pubbliche, la privatizzazione di attività produttive gestite dal settore pubblico in concorrenza con il settore privato, il divieto per gli Stati membri di favorire con aiuti pubblici le attività produttive del paese.

Queste liberalizzazioni sono state affiancate dall'adozione di consistenti politiche di coesione (che assorbono circa 2/3 del bilancio UE) per aiutare le regioni e le imprese più deboli ad affrontare la maggiore competizione determinata dai processi di liberalizzazione, tra cui l'istituzione dei cosiddetti fondi strutturali.

L’Italia si è adeguata un pò frettolosamente (a causa della scarsa lungimiranza e dell'inefficienza delle sue istituzioni) alle regole sottoscritte con l'adesione ai diversi trattati europei, pur essendo uno dei paesi fondatori dell'UE. In estrema sintesi, le liberalizzazioni adottate dalla politica italiana, ad esempio eliminando i controlli sui prezzi, introducendo le autorità antitrust e una diversa regolamentazione di vari settori, tentando di ridurre le barriere amministrative alle attività produttive, realizzando spesso mal gestite privatizzazioni, sono state implementate in modo un pò arrangiato e restano in parte incompiute.

Industria, servizi e innovazione tecnologica

Lo sviluppo dell'industria e dei servizi è sempre più dipendente dall'evoluzione tecnologica, mentre le innovazioni nel campo delle tecnologie dell’informazione e comunicazione impattano trasversalmente quasi tutti i settori.

L'innovazione tecnologica nell'industria e nei servizi si sostanzia con le attività di ricerca e sviluppo, la creazione di nuove imprese, l'introduzione di nuovi prodotti, processi e modelli organizzativi.

Nell'industria e nei servizi delle economie mature l'innovazione dovrebbe essere come il pane quotidiano, ma lo sviluppo tecnologico ha bisogno anche di un terreno fertile per proliferare.

Per favorire lo sviluppo tecnologico occorre la collaborazione di molti soggetti, pubblici e privati: le imprese, le istituzioni finanziarie, le università e gli istituti di ricerca, le istituzioni pubbliche e i soggetti che elaborano e attuano le politiche industriali.

Infatti, la dinamicità dello sviluppo tecnologico richiede l'adozione di politiche in grado di migliorare le capacità di apprendimento del sistema economico, lo sviluppo e l'acquisizione di conoscenze, la formazione di relazioni e reti tra imprese e soggetti pubblici attivi nel campo della ricerca e dell'innovazione, la costituzione di strutture finanziarie specializzate e l'adozione di nuovi modelli di finanziamento, il sostegno alla domanda di beni e servizi innovativi.

La costituzione di un ambiente che faciliti l'innovazione è particolarmente importante per il sistema economico italiano caratterizzato da una consistente frammentazione del tessuto produttivo, che si compone soprattutto di piccole e medie imprese, microimprese e artigianato.

Industria e sostenibilità ambientale

Connessa allo sviluppo tecnologico è la crescente consapevolezza di dover rendere la produzione di beni e servizi sostenibile dal punto di vista ambientale. Non si tratta solamente di rispettare le norme a tutela dell'ambiente o di minimizzare l'impatto delle attività produttive sull'inquinamento e lo sfruttamento delle risorse naturali, ma di una visione più generale che si fonda sulla natura stessa dello sviluppo tecnologico il cui obiettivo dovrebbe essere quello di migliorare la qualità della vita e il benessere della popolazione.

Si è, infatti, sviluppato un nuovo modello di produzione, la cosiddetta "green economy", definita dall'Organizzazione delle Nazioni Unite come “un’economia che produce benessere umano ed equità sociale, riducendo allo stesso tempo i rischi ambientali e le scarsità ecologiche. Nella sua espressione più semplice, un’economia verde può essere pensata come un’economia a basse emissioni di anidride carbonica, efficiente nell’utilizzo delle risorse e socialmente inclusiva".

Nella pratica quotidiana delle aziende permangono, tuttavia, atteggiamenti ancora distanti dai suddetti comportamenti ideali, poiché in molti casi le attività economiche continuano ad avere gravi esternalità negative sull’ambiente, come evidenziato dall'aumento dei rischi connessi ai mutamenti climatici conseguenti alle emissioni inquinanti dell'industria a livello mondiale.

In particolare, la competizione tra aziende e sistemi economici quando è basata sulla riduzione dei costi di produzione spinge i soggetti e le istituzioni economiche a non includere i costi ambientali (inquinamento, cambiamenti climatici, danni alla biodiversità, etc.) nei prezzi di mercato.

Per quanto riguarda il rapporto tra lo sviluppo dell'economia italiana e la tutela dell'ambiente, della salute e del benessere dei lavoratori e dei cittadini, le cronache giudiziare sono ricche di riferimenti a vicende, del passato e del presente, che raccontano di inquinamenti dell'aria, dei fiumi e dei mari, di discariche abusive e di risanamenti, di condizioni di lavoro rischiose per la salute e di sfruttamento dei lavoratori.

In questo campo c'è quindi necessità di regolamenti, maggiori controlli e sanzioni severe, e non di deregolamentazioni.

Le politiche industriali

Le politiche industriali consistono in un vasto insieme di interventi pubblici mirati a indirizzare e condizionare lo sviluppo dell'industria e dei servizi.

A differenza delle politiche economiche che hanno una portata più ampia e sono indirizzate alla crescita generale dell'economia, le politiche industriali sono declinate per settori e possono avere molteplici obiettivi non sempre compatibili con la crescita.

In passato, le politiche industriali erano tenute in grande considerazione dalla politica economica, in particolare per indirizzare lo sviluppo dei settori industriali. Successivamente, quando lo sviluppo economico è diventato più veloce e in parte imprevedibile nelle sue dinamiche interne, soprattutto a causa dell'accelerazione dell'evoluzione tecnologica, della crescita del commercio internazionale e della globalizzazione, le politiche industriali hanno perso parte della loro credibilità.

Avendo constatato, con il senno di poi, gli errori di valutazione dei grandi piani industriali del passato, gli Stati occidentali hanno ridotto il ricorso alle politiche industriali di ampio respiro lasciando che fosse il mercato a decidere lo sviluppo dei settori.

Successivamente, soprattuto a causa delle conseguenze sull'occupazione di crisi di attività produttive c'è stata una rivalutazione delle politiche industriali, declinate però in maniera diversa rispetto al passato.

Le moderne politiche industriali, infatti, non sono più caratterizzate dal dirigismo tipico del capitalismo di Stato e non mirano più ad imporre indirizzi generali allo sviluppo industriale.

In Italia, addirittura, le politiche industriali sono diventate esageratamente frammentate e contingenti, più orientate alla cura (nel tentativo di sanare crisi settoriali o anche di singole aziende) che alla prevenzione, trascurando così la possibilità di intevenire proattivamente quantomeno per mitigare le conseguenze di crisi settoriali annunciate o distorsioni del sistema produttivo prevedibili.

Ad esempio, con l'adesione alla moneta unica europea e l'abbandono della lira, non fu predisposta alcuna politica per salvaguardare almeno in parte i distretti industriali composti dalla miriade di piccole e medie imprese che producevano per conto terzi. Eppure era prevedibile che con l'adozione di una moneta forte come l'euro queste aziende sarebbero state spazzate via dall'importazione di semilavorati dall'estero. Né fu predisposta una politica industriale per accrescere la produttività delle aziende meno competitive. Eppure era prevedibile che le aziende meno tecnologiche o ad alta intensità di mandopera avrebbero avuto difficoltà a sopravvivere nel mutato conteso economico e che, nella migliore delle ipotesi, sarebbero state costrette a delocalizzare gli impianti produttivi.

Le moderne politiche industriali prendono in considerazione non solo gli sviluppi dell'industria in senso stretto, ma anche i settori sottoposti a processi di industrializzazione o strettamente connessi e complementari allo sviluppo industriale, tra cui ovviamente i servizi.

Infatti, la cosiddetta quarta rivoluzione industriale, nota anche come industria 4.0 o economia 4.0, prefigura una produzione industriale incentrata sull'automazione e l'interconnessione dove i servizi svolgeranno un ruolo determinante.

In sostanza, l'attuazione di politiche industriali innovative è fondamentale per favorire il successo di imprese, settori e paesi, ad esempio, garantendo il sostegno ai processi di internazionalizzazione delle imprese nazionali, il miglioramento della competitività delle imprese sul piano tecnologico e dei costi, il supporto alle nuove attività imprenditoriali, il sostegno alla ricerca e sviluppo, all’innovazione, agli investimenti e all’adozione di nuove tecnologie.

Le politiche industriali possono avvalersi di un ampio arco di strumenti, tra cui:

  • l’erogazione di sussidi, sotto forma di sgravi fiscali, agevolazioni creditizie, finanziamenti agevolati, detassazione e garanzie per gli investimenti;
  • il sostegno agli investimenti nelle start-up attraverso la creazione fondi specializzati e incubatori;
  • le imposizioni per scoraggiare determinate attività, come ad esempio la tassazione o la regolamentazione delle produzioni inquinanti;
  • le misure a tutela della concorrenza gestite dalle autorità antitrust e la liberalizzazione di mercati;
  • il controllo dei prezzi;
  • l'indirizzamento delle domanda pubblica, ad esempio favorendo determinate produzioni o produttori, in particolare nel campo delle telecomunicazioni, dell'alta velocità, nel settore aerospaziale, della difesa e della sanità;
  • la creazione di imprese pubbliche;
  • la creazione di infrastrutture materiali fondamentali per lo sviluppo di nuove attività o per il potenziamento di attività esistenti;
  • la creazione e l'efficientamento di infrastrutture immateriali, come il sistema pubblico di istruzione superiore, gli istituti di ricerca e innovazione, gli enti pubblici che definiscono regole e standard tecnici, gli enti di organizzazione di nuove attività e nuovi mercati;
  • varie misure di carattere commerciale in grado di rafforzare particolari settori produttivi, tra cui il sostegno alle esportazioni, gli incentivi per la localizzazione di filiali di imprese multinazionali, la protezione commerciale delle industrie nascenti (con tariffe, dazi, contingentamento delle esportazioni), la gestione di negoziati per aprire particolari settori di esportazione.

Per inciso, alcuni degli strumenti sopra elencati non sono più nella disponibilità dei singoli Stati aderenti all'Unione Europea, infatti con la creazione del mercato unico determinate decisioni di politica industriale e commerciale vengono prese dalle preposte istituzioni europee.

Tuttavia, le politiche industriali e commerciali dell'Unione Europea sono funzionali allo sviluppo e alle caratteristiche dell'industria e dei servizi dell'UE considerata nel suo complesso, per cui singoli Stati possono avere interessi parzialmente diversi.

La politica industriale italiana, infatti, deve tener conto di alcune caratteristiche peculiari della sua economia, come:

  • il profondo divario tra nord e sud del paese che non accenna a diminuire;
  • l'autonomia delle regioni che dovrebbero coordinare le loro iniziative con le politiche industriali nazionali;
  • un sistema produttivo caratterizzato da una forte presenza di micro imprese, in particolare nei servizi, e la tendenza del sistema economico italiano, così come dei sistemi economici più avanzati, alla diminuzione dell'intensità industriale con organizzazioni più complesse di dimensioni medie;
  • l'eccessiva frammentazione delle cosiddette parti sociali.

Il ruolo delle associazioni di categoria e dei sindacati

Le politiche industriali si fondano sulla collaborazione tra le istituzioni pubbliche, le imprese e le cosiddette parti sociali costituite dalle rappresentanze delle associazioni di categoria e dei sindacati.

Generalmente, le istituzioni pubbliche nell'ambito della programmazione per settori o per attività produttive specifiche prendono le decisioni con il metodo della concertazione. In sostanza, formalizzano le proprie decisioni sul settore, o stipulano trattative con la proprietà delle grandi imprese private, dopo aver sentito le parti sociali, o dopo che queste abbiano raggiunto un accordo.

In estrema sintesi, con la concertazione lo Stato si pone come un soggetto terzo, in parte arbitro, in parte attore dotato del potere di regolamentare e di concedere entro certi limiti delle agevolazioni finanziarie, fiscali, normative, etc.

Negli ultimi anni il metodo della concertazione è stato parzialmente disatteso, a volte con strappi eclatanti, probabilmente a causa dei mutamenti del contesto economico ma anche di vistose distorsioni della rappresentanza sociale, che sono peggiorate nel tempo, come ad esempio:

  • la proliferazione e la frammentazione delle parti sociali, ormai composte da una miriade di sigle sindacali e associazioni di categoria;
  • il corporativismo, in particolare delle associazioni di categoria, in parte ereditato dal passato e in parte accentuato dalla frammentazione delle parti sociali;
  • la natura esageratamente conflittuale delle istanze e delle rivendicazioni delle parti sociali che tendono troppo spesso a tutelare interessi particolari;
  • l'anacronismo ideologico e la politicizzazione di alcune rivendicazioni (probabilmente dovuta al retroterra culturale dei sindacati fondati sulla lotta di classe);
  • una sostanziale incapacità di rappresentare anche gli interessi generali dei cittadini e di pezzi della società non dotati di specifiche organizzazioni di rappresentanza;
  • il diverso peso specifico delle parti sociali, ovvero del loro potere di trattativa, che mal si concilia con l'uguaglianza dei diritti.

E' evidente che se l'ecosistema delle parti sociali non sarà in grado di autoriformarsi e trovare un metodo per contemperare al proprio interno i vari interessi di parte, anche al fine di rappresentare interessi più generali, se continuerà a sedersi ai tavoli delle trattative in ordine sparso ognuno con le proprie rivendicazioni, non riuscirà a tutelare la propria credibilità in parte già compromessa, tant'è vero che i governi sono sempre meno inclini a tener conto delle loro istanze.

Riferimenti

Istituzioni

Normativa base