Mercato del lavoro e protezione sociale

Il mercato del lavoro è una componente del più ampio e variegato concetto di lavoro. Un conto è svolgere un’atttività materiale o immateriale per raggiungere determinati scopi tra cui la produzione di beni o servizi dalla quale ricavare un profitto (mercato dei beni e dei servizi) o da donare alla comunità (volontariato), un conto è essere retribuiti da terzi per svolgere questa attività (mercato del lavoro). Il mercato del lavoro presenta caratteristiche in parte simili e in parte diverse rispetto ai cosiddetti “fallimenti di mercato” e tende ad assimilare le risorse umane a meri fattori di produzione, più o meno alla stessa stregua delle risorse materiali. L’intervento regolamentare e previdenziale degli Stati è stato quindi fondamentale, ma forse oggi non è più sufficiente.

Lavoratore in sciopero - simbolo

Il mercato del lavoro è costituito dall’insieme dei soggetti che domandano, che offrono e che intermediano il lavoro, dalle modalità di incontro tra domanda e offerta di lavoro e dalle regole con cui il lavoro viene scambiato (tipologia di contratti, retribuzione, tassazione).

Il mercato del lavoro è un mercato particolare, diverso da tutti gli altri, poiché nel XX secolo il lavoro ha assunto una rivoluzionaria valenza sociale e psicologica oltre che economica. Il lavoro ha sempre avuto una valenza economica come fattore produttivo e fonte di sostentamento ma non come fonte di reddito, anzi per gran parte della storia dell'umanità la retribuzione del lavoro non è stata obbligatoria e men che meno proporzionale al lavoro svolto.

Il cambiamento epocale nella percezione del lavoro è avvenuto sul piano sociale e psicologico, attraverso una rivoluzione culturale che ha progressivamente sovvertito la considerazione che la società aveva del lavoro.

Infatti, prima della rivoluzione francese e dell'affermazione della borghesia il lavoro come mezzo di sostentamento non godeva di grande considerazione, anzi le classi colte e l'aristocrazia consideravano miserevoli le classi sociali che avevano bisogno di lavorare per vivere. Il lavoro in sé era apprezzato quando rappresentava una vocazione, il soddisfacimento di un interesse personale, un impegno autonomo.

E' con l'affermazione della borghesia che il lavoro (il mercato del lavoro ancora non esiste) comincia ad essere percepito come fonte di reddito e non solo come mezzo di sostentamento, all'inizio sempre con spregio poi, man mano che i parvenus (i nuovi ricchi) acquistavano titoli onorifici, posizioni di prestigio e si imparentavano con i nobili, in modo sempre più neutrale.

Ma è solamente dopo la prima rivoluzione industriale, con le lotte e l'affermazione della classe operaia, che il lavoro acquista il valore economico, sociale e psicologico a cui siamo abituati oggi, un valore riconosciuto dalle convenzioni internazionali sui diritti umani, un valore talmente idealizzato da essere inserito come principio fondante della Repubblica nella Costituzione italiana che all'Art. 1 recita: "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro."

Questo sintetico excursus storico testimonia che la concezione del lavoro oggi dominante è relativamente recente e soprattutto non immanente.

Lavoro e capitale

Se dovessimo prendere alla lettera l'indicazione di principio che scaturisce dalla carta costituzionale quando individua nel lavoro il fondamento della Repubblica, dovremmo constatare con il senno di poi che i padri costituenti, o hanno sancito una dichiarazione utopica, o hanno avuto un lapsus mentre stavano scrivendo: "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul capitale."

E' ovviamente una provocazione, che però ben evidenzia come il ruolo principale nell'economia di mercato sia stato svolto dal capitale e non dal lavoro, e che può far riflettere sul clima politico e ideologico in cui fu redatta la Costituzione della Repubblica italiana. In quel periodo, tutte le forze politiche incluse quelle capitaliste erano condizionate dalla concezione marxista dell'economia, mentre le forze di sinistra erano profondamente pervase da quell'idealismo che aveva determinato la nascita dell'utopia comunista e dell'Unione Sovietica e che vedeva nel conflitto tra capitale e lavoro la sua stessa ragion d'essere.

In sostanza, la concezione del lavoro come fonte di reddito affermatasi con la borghesia, si saldava alla contrapposizione sociale tra capitalisti e lavoratori, con questi ultimi che rivendicavano il ruolo del lavoro subordinato nell'economia industriale e il riconoscimento dei diritti dei lavoratori al fine di garantirsi una quota equa della ricchezza prodotta dall'impresa (capitale + lavoro subordinato).

In altre parole, la lotta di classe era funzionale alla ridistribuzione della ricchezza prodotta dall'economia di mercato.

Paradossalmente, mentre nei paesi comunisti il lavoro diventava un obbligo più che un diritto, nelle democrazie capitaliste e nelle socialdemocrazie europee si tentava di dare attuazione al principio che sanciva il diritto al lavoro e lo elevava a mezzo principale per migliorare le condizioni di vita dei cittadini e conquistare il benessere sociale e individuale.

L’illusione della piena occupazione

Per alcuni decenni a partire dal secondo dopoguerra, l'espansione dell'economia di mercato e la crescita dell'industria e dei servizi crearono condizioni favorevoli all'espansione delle opportunità di lavoro e alla crescita dei redditi da lavoro subordinato, lasciando intendere che fosse possibile raggiungere la piena occupazione (che non consiste in un tasso di disoccupazione nullo ma in un tasso di disoccupazione minimo, cosiddetto frizionale).

Effettivamente, alcuni paesi riuscirono a raggiungere la piena occupazione, ma ben presto tutte le economie occidentali si resero conto che questa condizione non era stabile e che il suo raggiungimento sarebbe diventato un'eccezione piuttosto che la regola.

Senza la piena occupazione una quota della popolazione attiva era necessariamente esclusa dal mercato del lavoro, ovvero l'economia di mercato non era in grado di garantire il diritto al lavoro.

In aggiunta, l'economia di mercato mal digeriva i diritti conquistati dalla classe operaia, cosicchè lo Stato sotto la pressione dei sindacati era dovuto intervenire sempre più incisivamente per regolamentare il mercato del lavoro e garantire la tutela dei diritti dei lavoratori.

In sostanza, gli Stati occidentali erano chiamati a dare risposte a tre domande fondamentali:

  1. Il frequente fallimento delle politiche economiche mirate a garantire la piena occupazione - sebbene efficaci nello stimolare la crescita economica - rendeva utopico il principio costituzionale che sanciva il diritto al lavoro, oppure lo Stato sarebbe riuscito a trovare altri mezzi per garantire ai cittadini il diritto al lavoro?
  2. Lo Stato sarebbe riuscito a difendere i diritti dei lavoratori conquistati con dure lotte sociali e sindacali e a contrastare efficacemente la tendenza dell'economia di mercato a trasformare il lavoro in un mero fattore di produzione?
  3. E infine, lo Stato sarebbe riuscito a superare le contraddizioni del mercato del lavoro e ad alleviare le sofferenze della popolazione causate dallo sfruttamento, dagli infortuni, dalle malattie, dalla mancanza di continuità sul lavoro e dalla cronica carenza di domanda di lavoro?

La prima domanda è stata di fatto elusa dagli Stati occidentali ma, in particolare le socialdemocrazie europee, si sono prodigate per soddisfare le altre due domande garantendo i diritti dei lavoratori e tutelando il mercato del lavoro, attraverso:

  • lo sviluppo di strumenti giuridici per la tutela dei diritti del lavoratore;
  • la regolamentazione del mercato del lavoro e il suo adeguamento ai mutamenti del contesto economico con riforme più o meno riuscite;
  • l'implementazione dello Stato sociale, il cosiddetto welfare state, attraverso sistemi di protezione sociale sempre più avanzati.

Il sistema di protezione sociale

La spesa pubblica per la protezione sociale costituisce oggi la quota di gran lunga più consistente della spesa dello Stato, attestandosi in Europa mediamente poco sotto al 20% del PIL.

Il sistema di protezione sociale è costituito da un insieme d'interventi pubblici mirati alla ridistribuzione del reddito ed è orientata da due criteri principali:

  • un criterio di tipo verticale teso a ridistribuire il reddito prodotto dall'individuo in funzione dell'età, per cui attraverso il sistema previdenziale si obbligano i lavoratori ad accantonare una quota del reddito prodotto, che verrà percepito opportunamente rivalutato sotto forma di pensione dopo la conclusione della vita lavorativa, ovvero al raggiungimento di determinati requisiti stabiliti per legge;
  • un criterio di tipo orizzontale teso a ridistribuire il reddito tra cittadini attraverso l'azione combinata del sistema fiscale e del sistema di assistenza sociale. Attraverso il sistema fiscale orientato da criteri di proporzionalità e progressività i cittadini versano le tasse che per una quota confluiscono in un fondo destinato a finanziare l'assistenza sociale. I fondi stanziati per l'assistenza sociale vengono poi erogati ai cittadini in base a criteri prestabiliti che determinano diverse forme e modalità di erogazione. I parametri utilizzati per stabilire chi e quando assistere, sono: il reddito del nucleo familiare, del singolo, il verificarsi di determinate situazioni soggettive come l'età, la perdita del lavoro, uno stato di malattia anche temporaneo, lo stato di maternità e paternità, il merito negli studi.

L'assistenza sanitaria è invece distinta dal sistema di protezione sociale poiché vi hanno diritto tutti, ovvero l'erogazione delle prestazioni sanitarie non è correlata a situazioni economiche soggettive ma allo stato di salute del cittadino. Tuttavia, quando le prestazioni sanitarie sono erogate in regime di esenzione totale sulla base di criteri di reddito e di età sono assimilabili alle prestazioni del sistema di assistenza sociale.

Dalla correlazione tra Stato sociale e carenze del mercato del lavoro si evince che la finalità del sistema di protezione sociale è di stabilizzare il reddito di famiglie e individui le cui capacità lavorative sono compromesse da determinati eventi, o da situazioni di svantaggio, o da situazioni di bisogno, o dallo svolgimento di attività non remunerate ma meritevoli di aiuto economico.

Sembrerebbe quindi che le democrazie occidentali, pur non riuscendo a garantire il diritto al lavoro, abbiano trovato una soluzione agli effetti nefasti della disoccupazione e alle contraddizioni del mercato del lavoro potenziando lo Stato sociale. Ma non sono tutte rose e fiori.

Sostenibilità ed efficacia del sistema di protezione sociale

Lo Stato sociale è molto costoso e bisogna trovare le risorse per finanziarlo attraverso la fiscalità generale. Occorre quindi evidenziare che:

  • sia la fiscalità generale che il sistema di protezione sociale risentono di eventuali stagnazioni e recessioni della crescita economica. Anzi, in caso di gravi crisi economiche o lunghe recessioni lo Stato sociale potrebbe non reggere gli effetti della crisi ed essere permanentemente ridimensionato;
  • lo Stato sociale per essere sostenibile non può proteggere tutti i cittadini. Occorre stabilire dei limiti di copertura, ovvero definire le situazioni e le fasce sociali in cui intervenire;
  • la sostenibilità dello Stato sociale dipende anche dall'efficienza e dall'efficacia del sistema fiscale e dello stesso sistema di protezione sociale.

In un paese come l'Italia dove il sistema fiscale non è così efficace, dove la previdenza sociale è stata troppo a lungo basata sul sistema retributivo invece che contributivo, dove sono state erogate prestazioni previdenziali che più che pensioni sembrano privilegi dell'epoca feudale, dove il sistema assistenziale tende a proteggere anche chi non ne avrebbe bisogno e a lasciare intere fasce sociali senza tutela, dove i giovani non trovano coperture assistenziali ovvero una qualche forma di reddito minimo garantito (che tranne in Italia e Grecia sono presenti in tutti gli altri paesi dell’Europa a 28), dove non esiste un effettivo sussidio di disoccupazione universale, il sistema di protezione sociale è inefficiente e sperequativo e fallisce uno dei suoi obietttivi fondamentali.

Infatti, la popolazione italiana ha pagato a caro prezzo l'inefficienza del sistema di protezione sociale durante la crisi economica 2008-2014, quando la crisi si è avvitata su se stessa a causa di un crollo della domanda interna, ovvero dei consumi e degli investimenti. Probabilmente, con un sistema di protezione sociale più efficace la crisi dei consumi non sarebbe stata così incisiva.

Occorre infatti considerare, accanto alla classica accusa sindacale di insufficienza dei fondi destinati all'assistenza sociale, la possibilità che gli aiuti assistenziali siano stati mal distribuiti.

Il sistema di protezione sociale italiano appare quindi inadeguato per una economia moderna e globalizzata, dove è fondamentale che il sistema di assistenza sociale abbia come obiettivo primario la stabilità dei consumi delle famiglie, sia quando interviene attraverso la stabilizzazione dei redditi per sanare le carenze e le contraddizioni del mercato del lavoro sia, a maggior ragione, quando interviene a contrastare gli effetti delle crisi economiche.

Ma nonostante lo Stato sociale italiano appaia arretrato e ingessato dagli errori del passato è oggi chiamato, come tutti i sistemi di protezione sociale delle economie occidentali, a compiere ulteriori sforzi per superare le crescenti carenze e contraddizioni del mercato del lavoro.

Il declino del mercato del lavoro e il futuro della protezione sociale

La crescente e inarrestabile globalizzazione consente una mobilità di capitali e di investimenti senza precedenti, per cui le aziende possono stabilire facilmente le unità produttive in paesi a basso costo di mandopera. Lo sviluppo tecnologico, in particolare con la robotica avanzata e l'intelligenza artificiale, renderà il lavoro umano sempre meno competitivo sia in termini di produttività che di costo.

La conseguenza è che nei paesi ad economia avanzata la domanda di lavoro da parte delle aziende è probabilmente destinata a diminuire, nonostante la crescita economica.

Opporsi a questa tendenza con il vecchio armamentario ideologico e culturale del '900 non ha più senso. Infatti, è ormai anacronistico difendere il diritto al lavoro e i diritti dei lavoratori contrapponendosi al capitale e ai proprietari dei mezzi di produzione, anzi bisogna fare in modo che gli imprenditori non vadano via e puntare ad attrarre nel proprio paese aziende e investitori. Similmente, non è possibile opporsi allo sviluppo tecnologico che nelle economie mature è diventato il principale motore della crescita, anche se si tratta di una crescita economica che crea sempre meno lavoro o addirittura lo distrugge. Infatti, senza crescita economica diventerebbe ancora più difficile finanziare lo Stato sociale con la fiscalità generale, il declino non riguarderebbe solo la classe lavoratrice ma tutta la società e, infine, bisognerebbere rinunciare ai vantaggi della diffusione dello sviluppo tecnologico incorporato nei beni e nei servizi.

In sostanza, la risposta alla domanda rimasta insoluta negli scorsi decenni sulle capacità dello Stato di garantire il diritto al lavoro e di tutelare i diritti del lavoratore è ormai sotto gli occhi di tutti: l'economia di mercato, nonostante le politiche economiche tese a raggiungere la piena occupazione, non è in grado di garantire a tutti il diritto al lavoro nè una retribuzione del lavoro sempre dignitosa, per cui se lo Stato vuole continuare a tenere insieme lavoro e reddito dovrà trovare nuove strade e strumenti innovativi.

In effetti, il declino del mercato del lavoro può essere riscontrato non solo nella cronica e crescente carenza dei posti lavoro, cioè nella disoccupazione, ma anche in altri fenomeni come:

  • la diminuzione delle retribuzioni medie, per cui cresce il numero dei cosiddetti lavoratori poveri (cioè di persone che pur lavorando otto ore al giorno o più non riescono ad arrivare alla fine del mese e a garantire condizioni di vita normali a se stessi e ai propri familiari);
  • le crescenti difficoltà che lo Stato incontra nel far rispettare concretamente a tutti i soggetti economici la regolamentazione del mercato del lavoro e i diritti dei lavoratori.

In sostanza, appare in crisi la stessa concezione del lavoro inteso come fonte di reddito universale.

Infatti, se per un verso alcuni lavori possono essere una fonte di reddito anche cospicuo, per l'altro verso storicamente la remunerazione del lavoro tende ad attestarsi su un livello di sussistenza. In altre parole, esistono tanti tipi di lavoro e mentre alcune prestazioni lavorative possono stare sul mercato perché sono considerate risorse scarse e quindi sono ben retribuite, altre invece sono considerate risorse abbondanti ovvero fattori produttivi a basso costo.

Non è un caso che alcune forze politiche, ispirate da autorevoli sociologi ed economisti che teorizzano l'ipotesi di svincolare il reddito dal lavoro, abbiano fatto propria la proposta di un reddito di base o reddito di cittadinanza - che si differenzia in modo sostanziale dal reddito minimo garantito - da erogare attraverso il sistema di assistenza sociale. Tuttavia, una soluzione di carattere universale, cioè indirizzata a tutta la popolazione, non sembra praticabile sia per il costo troppo elevato che per le conseguenze sull'attuale mercato del lavoro.

Probabilmente si rende necessario un cambio di prospettiva: se si abbandona l'idea che la crescita economica crei posti di lavoro e ci si concentra sulla crescita economica che crea ricchezza, allora si percepisce che il problema reale è come raccogliere e ridistribuire questa ricchezza.

In effetti, grazie all'affermazione dei diritti del lavoratore e alla lotta di classe il lavoro ha svolto la funzione di ridistribuire la ricchezza, conquistando quote sempre maggiori del reddito mondiale. Oggi, invece, le analisi statistiche sono concordi nel ritenere che la quota del reddito mondiale spettante al lavoro sia in costante diminuzione, addirittura già a partire dalla seconda metà degli anni '70 nei paesi di prima industrializzazione.

In altre parole, il parziale automatismo che si instaurava tra crescita economica, crescita dei posti di lavoro e crescita delle retribuzioni è stato spezzato dall'evoluzione, o involuzione come direbbero alcuni, dell'economia di mercato, per cui ciò che resta di questo parziale automatismo non consente più al lavoro subordinato (e quindi alla lotta di classe prima e alla tutela del lavoro e dei diritti dei lavoratori poi) di essere un metodo efficace di ridistribuzione della ricchezza.

In sostanza, lo Stato dovrà farsi carico della ridistribuzione della ricchezza con un sistema di protezione sociale sempre più efficiente e con l'aiuto di aziende e investitori che dovranno essere resi più consapevoli che eventuali crisi dei consumi nei loro mercati dipenderanno anche dal loro atteggiamento di collaborazione con le istituzioni, come ad esempio nei confronti del fisco. Infatti, nel contesto dell'economia di mercato i cittadini hanno sempre più valore come consumatori e sempre meno come lavoratori (fattori di produzione).

I sistemi di protezione sociale dovranno quindi evolversi ulteriormente probabilmente ripensando dalle fondamenta gli strumenti di previdenza e assistenza sociale.

Riferimenti

Istituzioni

Normativa base